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avatar: la pocahontas-elfo pitturata di blu

26/01/2010

Allora vediamo: Avatar.

Di certo è un bel film, ma non è il più bel film del secolo, come l’hanno definito alcuni. Di certo dura troppo e in quel troppo tempo dice poco. Di certo è fatto benissimo e gli effetti speciali sono una figata. Di certo la trama è una boiata. Praticamente è un pastrocchio, un collage di cose prese un po’ qua e un po’ là. Però un pastrocchio uscito bene, che alla fine ti piace e ci devi pensare un attimo prima che il tuo neurone dica “Hey, un momento, c’è qualcosa che non torna!”.

Ma iniziamo dai lati positivi: è un bel film, quando esci dalla sala non hai la sensazione di aver buttato via 10€. Tecnicamente è fatto benissimo e il 3D ti incolla alla sedia anche se ti fa perdere un po’ di colore. Chi ha ideato il pianeta Pandora e le creature che lo abitano merita un applauso per certi aspetti spettacolosi (ma un sonoro pernacchio per certi plagi evidenti).

Ora chi non ha visto il film, ma intende farlo, si fermi perché rischio di svelare in parte o del tutto la trama rovinandovi la visione tirando fuori gli aspetti che non mi sono piaciuti e/o non ho capito.

Innanzi tutto: la narrazione della storia. Direi che è fatta col culo. Perché non spiega una mazza. Perché gli umani vanno a rompere i coglioni al popolo blu a casa loro? Per estrarre un minerale che costa l’iradiddio ma che non si sa a cosa serva. La storia dei viaggi interstellari fatti in letargo ci può anche stare, ma non è spiegata. E soprattutto non si capisce come cazzo funzionino questi “avatar”, che a quanto ho capito io sono degli esseri simili in tutto e per tutto agli abitanti di Pandora in cui viene trasferita la mente dell’umano per il quale sono fatti, perché sono basati sul genoma (?! attenzione al passaggio: sono uguali agli indigeni ma sono basati sul genoma umano… non sono laureato in biotecnologie, ma non credo che il genoma umano si adatti bene per la creazione di un corpo che non respira ossigeno). Insomma, ‘sti umani qua si infilano in un tubo e diventano il popolo blu, un po’ come in Matrix si infilavano un cavo nella nuca ed entravano in rete. Poi quando sono popolo blu e si addormentano, improvvisamente si svegliano nel tubo nuovamente umani. Beh, non c’è bisogno della cabina del telefono ed è tutto molto affascinante, certo, ma in tre ore di film un minutino per spiegare meglio con qualche boiata come funziona non l’hanno trovato?

Veniamo ai plagi: Pandora è un posto “sublime”, da intendersi in senso filosofico. Ci sono paesaggi mozzafiato e creature affascinanti che fanno parte di un unico organismo. E’ curioso che per connettersi alla divinità del tutto basti una chiavetta USB, che sarà anche la versione stilosa 3.0, ma sempre una chiavetta USB stile Matrix resta. E poi ci sono le montagne volanti di Magritte, che sono fighe sì, ma sono di Magritte (e comunque c’erano anche in altri celebri cult tipo Dragon Ball). E poi Pandora è fatto di tanti LED che si illuminano quando li calpesti. Che è figo, certo, ed è reso ancora più figo dalla tecnologia digitale di cui si è certamente abusato, tanto che a volte sembra un cartone animato molto realistico.

La popolazione di Pandora è una via di mezzo tra gli elfi della mitologia nordica e gli indiani d’America. Amano la Natura, credono in una divinità che sarebbe poi Madre Terra (come i Puffi, del resto) e che comunica con loro tramite il Tutto (un po’ di Wiccan non basta mai). Insomma, è un intreccio di sub-culture varie ed eventuali mischiate con poca sapienza, ma il risultato finale è carino. Non si capisce a cosa minchia servano le ossa di titanio su un pianeta dove pare che la gravità sia molto inferiore a quella terrestre, ma se Madre Natura ha deciso così saprà il fatto suo.

E poi arriviamo alla trama. Su cui ho parecchio da dire, perché ci sono un bel po’ di questioni.

Allora, innanzi tutto mi devono spiegare perché un ex marine paralizzato viene mandato su un pianeta in culo all’universo al posto del fratello. Che OK, suo fratello era uno scienziato e poveretto è stato ammazzato. Ma l’ex marine è un pirla che non sa una beneamata mazza di ciò che faceva il fratello. Capisco che l’avatar possa anche costare un po’ di soldi, ma cazzo, se il minerale che estraete da Pandora lo fate pagare mille milioni al grammo… insomma, non state comunque con le pezze al culo se andate in giro per le galassie a rompere i coglioni. Comunque vabbè, l’ex marine dorme cinque anni sull’astronave, arriva a Pandora e dà vita al suo avatar (sempre quella storia del genoma che non si è capita). E l’ex marine, proprio perché è uno zuccone testa vuota, viene accolto e istruito dalla comunità blu, al punto che diventa uno di loro attraverso l’immancabile “prova” – che consiste nel domare una specie di drago – e infine la cerimonia della maturità – come in ogni tribù africana. Dopo di che pare che scopi con la figlia del capo, ma non è chiaro. Si uniscono. E vabbè, sono alieni.

La cosa che non mi quadra è semplice: come può un soldato zuccone e inquadrato (all’inizio dice “non smetti mai di essere un marine”, tanto per rendere l’idea) aprire la propria mentalità ai figli dei fiori al punto da diventare davvero uno di loro?

La cosa più assurda è il “flusso”, ovvero una specie di campo elettromagnetico (deduco io) che manda a puttane gli strumenti delle navi spaziali e degli elicotteri. Ma cazzo, anche qua, fate durare il film tre ore e non mi dite mezza parola su cosa minchia è questo flusso, perdiana? E le montagne che volano stanno su per via del flusso? Ma poffarre!

Poi c’è la scienziata nevrotica fumatrice, ma buona, che però ha un po’ la mania della scienziata ottocentesca che deve prendere campioni di roba un po’ ovunque e tende a “evangelizzare”, o in questo caso “umanizzare” gli indigeni che se ne stavano tanto bene prima che arrivasse lei a mettergli su la scuola (ovviamente lei SAPEVA che avrebbero dovuto girare un film e SAPEVA che il protagonista non conosceva la lingua indigena e SAPEVA che se non ci si metteva Pocahontas a fare l’interprete col cazzo che giravano il film, ecco perché ha messo su la scuola, lei SAPEVA tutto dall’inizio, la stronza, ma non te l’ha detto perché ti devi fare tre ore col culo sulla poltrona).

E infine c’è il cattivone di turno, che ovviamente è il capo dell’esercito di tutti ‘sti cazzi, che ha quattromila elicotteri e due mezze morti nere a disposizione e riesce a farle esplodere tutte e due. Arco e frecce vs. dinamite (già che c’erano perché non la bomba atomica?). Chi vince? L’arco e frecce, ovviamente, coadiuvato da qualche arma presa non si sa bene dove. Ah, e l’aiuto di Madre Natura. Nonché la super iper mega prova di coraggio del nostro protagonista, che va a domare il drago dei draghi, quello gigante che spaventa tutti, e ci riesce. La scena non c’è, ma lui è un figo e ci riesce, e poi atterra tra il popolo blu riunito e si bulla della sua impresa andando dalle altre tribù blu a reclutare un esercito per combattere con archi e frecce un arsenale intergalattico. Sè, lallero.

Concludendo, è un pastrocchio di teorie ambientaliste, moralismi sul rispetto del diverso, retoriche ambiguamente sia pro sia contra l’esercito, popolazioni mitiche, popolazioni effettivamente esistite ma distrutte, religioni new age e wiccan e aggiungete pure se volete, nei commenti.

Però è un pastrocchio uscito bene, bisogna ammetterlo.

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quando i racconti dei vecchi diventano reali

24/01/2010

Non ho mai sottovalutato la potenza dei film, ma questo non mi era ancora capitato.

Come tutti sapete, sono nato e cresciuto in un paese in provincia di Reggio Emilia ai piedi dell’Appennino. Ho due nonni milanesi ormai morti, ma vivo con gli altri due nonni emiliani, fortunatamente vivissimi.

Mio nonno ha quasi 80 anni e quando è scoppiata la Seconda Guerra Mondiale ne aveva 10. Dai 13 ai 14 anni ha assistito ai bombardamenti sul paese, che era un nodo strategico per via del ponte sul fiume. E a 15 anni ha visto la Guerra finire.

Mia zia, sua sorella, è morta l’anno scorso. Lei di anni ne aveva 17 quando è scoppiata la Guerra. Ha visto il suo “promesso” partire per andare sulle montagne e non tornare più. Ha visto i tedeschi puntare fucili addosso alla gente. Ha visto una famiglia di ebrei chiedere al mio bisnonno di tenere la loro roba in cantina, mentre loro si andavano a rifugiare in luoghi più sicuri. Non sono più tornati.

Tutte queste storie per me sono racconti lontani nel tempo, una sorta di tradizione orale rigorosamente dialettale che i vecchi tramandano ai giovani per non farli dimenticare che pochi decenni prima l’Italia era un altro paese, che c’è stato un periodo terribile durante il quale non ci si poteva fidare neanche del vicino di casa, una vera e propria guerra civile. Chi partiva per le montagne, chi si faceva i fatti suoi, chi andava a Salò. Chi moriva.

Vedere tutto ciò sullo schermo, nella crudezza e nel realismo di una pellicola che non contiene retorica ma che racconta come si svolgevano i fatti, dalla vita quotidiana di una famiglia come poteva essere la mia al racconto di una strage gratuita e atroce come quella di Marzabotto. E sentirlo per di più in una lingua familiare, che assomiglia decisamente troppo alla lingua di chi mi raccontava (e mi racconta) questi avvenimenti. Non so, ha una forza enorme che ti scuote e ti fa finalmente realizzare che cosa sia la guerra.

Andate a vedere “L’uomo che verrà”. Fa male, ma serve.