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l’animale urbano

10/01/2010

Ci sono giorni in cui senti l’impeto irrefrenabile di scrivere qualcosa, ma appena ci provi non riesci. Non ti vengono in mente argomenti, frasi, spunti, hai solo voglia di scrivere ma non sai cosa. Quindi cominci a scrivere cose senza senso, sperando che alla fine un filo rosso salti fuori. Guardi il tuo desktop, scorri col mouse, controlli la posta, ordini i contatti in cerca di un’ispirazione che, lo sai, non arriverà. Almeno non oggi.

Ma la voglia di scrivere, la necessità di comunicare qualsiasi cosa, non passa. Quella non può essere neutralizzata. Sembra la malattia dei nostri tempi, l’inettitudine alla non comunicazione. Tra televisione, internet, telefoni… non siamo più in grado di chiuderci per pochi minuti in noi stessi senza per forza doverlo twitterare o farlo sapere al mondo scrivendolo nello status di facebook.

E’ una cosa che sapevo già dentro di me, ma me ne sono reso conto soltanto a New York. Il fuso orario rende difficile l’interazione in tempo reale con chi sta dall’altra parte dell’oceano, e i costi di un messaggio diventano un problema. E checché se ne dica, in America il wi-fi gratuito non esiste più tranne che nell’isola felice dei negozi della mela bianca. Lì, in un’atmosfera diafana e minimalista, ho potuto connettermi alla rete e telefonare via skype in Italia. E lì mi sono accorto di essere malato. Diagnosi: incapacità di non comunicare, come in una vignetta di Mafalda in cui Susanita, logorroica pettegola per eccellenza, si lamenta del suo problema.

E poi mi chiedo… ho un computer perennemente connesso alla rete, un telefono che è un’appendice del computer, ho un profilo su facebook, scrivo su un blog… la mia vita è davvero così interessante da dover per forza comunicare qualcosa in ogni momento a qualcuno? No. La mia vita non ha nulla di straordinario. Anzi, è particolarmente noiosa. Da quando ho lasciato Milano è iniziato un graduale ma inesorabile deterioramento di rapporti sociali, la stessa dinamica che si è verificata sei anni fa quando lasciai Reggio. Risultato: non ho contatti sociali se non virtualmente. Ecco cosa mi porta ad ammalarmi di incapacità di non comunicare.

Purtroppo non ho lo spirito dell’eremita. Se ce l’avessi sarei felice qua, “a 6 chilometri di curve dalla vita”.

E poi mi ricordo di quando ero piccolo e sognavo di vivere in una grande città. Sull’autobus per Reggio ogni mattina, per andare al liceo, nella mia mente stavo prendendo una metropolitana per il centro – e il buio delle sei del mattino in inverno aiutava a rendere tutto ciò più realistico.

Credo che sia stata proprio l’esigenza della città che mi ha portato ad iscrivermi ad Architettura. Non tanto a trasferirmi a Milano, ma a frequentare proprio quella facoltà. La facoltà dove ti insegnano cosa è tecnicamente una città. La facoltà dove, se hai una mente sufficientemente permeabile, puoi imparare – o meglio interiorizzare – quelle dinamiche che rendono un agglomerato di persone e edifici una città.

E cosa cavolo è, questa città, se non la relazione continua ma effimera con altri esseri umani?

La differenza tra la vita di città e la vita di provincia sta lì. Nel paese è come essere in una famiglia molto allargata dove tutti si conoscono. Le tue abitudini vengono notate subito. Il panettiere sa che tipo di pane mangi, la commessa del supermercato sa che spesa fai, il cartolaio sa che libri leggi. Non c’é contatto effimero, ma contatto reale.

Invece in città incontri gente, incroci sguardi… anche solo per pochi secondi, stabilisci un contatto che inevitabilmente svanisce alla prossima stazione della metropolitana o al prossimo incrocio.

E poi, a volte, incontri qualcuno di speciale che riesci a notare tra la folla per un piccolo gesto, un particolare, un movimento, e allora in te si accende l’interesse e la curiosità. Non importa se tale interesse verrà poi soddisfatto da una effettiva relazione con la persona che ti ha incuriosito. La cosa importante è che in te si muove qualcosa di diverso dalla routine, che riesce per qualche secondo a cambiare il tuo atteggiamento verso la strada piena di persone anonime, che passano la loro vita confondendosi nella folla.